"Batte Botte" di Dino Campana

Un omaggio personale al poeta
sommo preferito
...
Dino Campana
Ne la nave
Che si scuote,
Con le navi che percuote
Di un’aurora
Sulla prora
Splende un occhio
Incandescente:
(Il mio passo
Solitario
Beve l’ombra
Per il
Quais)
Ne la luce
Uniforme
Da le navi
A la città
Solo il passo
Che a la notte
Solitario
Si percuote
Per la notte
Dalle navi
Solitario
Ripercuote:
Così vasta
Così ambigua
Per la notte
Così pura!
L’acqua
(il mare
Che n’esala?)
A le rotte
Ne la notte
Batte: cieco
Per le rotte
Dentro l’occhio
Disumano
De la notte
Di un destino
Ne la notte
Più lontano
Per le rotte
De la notte
Il mio passo
Batte botte.

Prefazione
Il romanzo di Marco Coppola mi ricorda istintivamente le pagine di alcuni scrittori che in modo sintetico ed efficace rendono pienamente l'idea d'un personaggio, d'una semplice presenza, d'una immagine intravista di sfuggita eppure fissata in modo proverbiale, e nondimeno hanno la forza penetrante di scandagliare la più labile emozione, il più segreto intendimento, scoperchiando quello scrigno personale celato nel più profondo recesso di quell'universo interiore che sovente viene tenuto nascosto agli altri.
A volte le parole sembrano perdersi nel nulla d'una narrazione che pare svanire, d'una storia che presenta momenti nei quali pare non avere importanza e quasi dissolversi ma è solo un inganno perché ciò che conta vermente, e cioé l'idea che l'autore intende presentare sul vassoio come portata che si sostanzia negli ingredienti della vita, è sempre, e scrivo sempre, tenuta ben in considerazione, intoccabile e inattaccabile da qualsisi divagazione letteraria.
È in questa determinazione che sta la forza della scrittura, l'energia vitale e propulsiva di Marco Coppola con quella propensione del protagonista a sguazzare nel mare magnum dell'esistenza, con la voglia di mostrare i denti al mondo e, da sottofondo, un sottile bisogno, anzi una urgenza disperante, di una fuga da se stesso: davanti alla scelta definitiva si assiste alla caduta d'ogni volontà decisionale, un lento perdersi, un fuggire inesorabile che porta a nascondersi nelle "ombre" d'una città, a scomparire agli occhi indagatori e scrutatori di se stesso e quindi i più temibili. Non è un caso che i suoi occhi "sono chiusi quando devono restare aperti", il tempo a disposizione è sempre poco e l'esistenza è costellata da false partenze, illusori arrivi, sospiri dopo un pericolo scampato e un lento annegare in un mare di pensieri da "anima inquieta".
La sensazione è quella di muoversi in un labirinto di infinite stanze, senza entrata né uscita, che obbligano a un continuo vagare con false direzioni, frequenti inversioni, immancabili ritorni con l'unico scopo di sentirsi ancora "vivo" davanti al silenzio del mattino, all'ignoto, alla fatale nuova attrazione.
Eppure quanta passione nelle parole dell'Autore, aperture improvvise che nascondono segreti, lampi d'immagini crude e descrizioni precise, e poi una sequenza di interrogativi che tendono a penetrare nella sostanza delle cose e rendere subito consumabile la scena per poi rituffarsi avidamente ancora in una nuova sceneggiatura.
Sempre in picchiata tra i sensi mentre le prospettive mutano di continuo e l'Uomo multiplo, il protagonista dai mille nomi e dalle svariate personalità si rende conto di non sapere più chi è: a volte le percezioni sono velenose, i comportamenti destabilizzanti e il pluralismo ricettivo di sensazioni, conoscenze ed esaltazioni sembra destinato ad una deflagrazione inutile.
Scrivere e farsi capire fino ad un certo punto e poi "alzare i tacchi velocemente lasciando la controparte trafitta e stordita" ed è per questo che Marco Coppola tende sempre ad andare oltre l'immagine, al di là dell'apparenza e, con uno stile sinuoso e suadente, la sua parola come una saetta crocifigge le certezze e le sicurezze e giunge ad accettare il "male minore" perché la "vita è una sola".


Massimo Barile


Ombre
- CAPITOLO UNO -


Apro gli occhi ed è come se li avessi ancora chiusi.
Mi si presentano immagini nervose di me sdraiato al contrario, le braccia distese a seguire la testa protesa in avanti, gli occhi lucidi e vivi, proiettato su di una lunga pista di neve grigia, scaraventato in un torrente in piena, ripido come una cascata d'acqua frizzante, travolgente come il suono elettrico di una chitarra in un teatro a luci spente, e percorro una dimensione conica tappezzata di luci in un vortice umido costellato da emozioni.
Posiziono i colori in una griglia di tessuto, la indosso cambiando umori e percezioni, attraverso flash in istanti scanditi nel tempo.
Chiudo gli occhi e li riapro con movimenti veloci e ripetuti, sorridendo ogni qual volta riattraverso il bianco accecante proiettatomi contro.
Osservo chi mi osserva dandogli forma e nome.
Riconosco gli occhi di chi mi vuole bene.
Rallento... mi calmo... mi fermo.
Felice come un bambino, stanco come se fossi appena nato.
In un viaggio appassionante verso l'ignoto... riscopro la vita.

Disteso su un letto d'ospedale, immemore nel sapere cosa e quanto mi fosse accaduto.
Mi solleva il calore di lei, della sua mano sulla mia, le lacrime di gioia per il pericolo scampato e le labbra gonfie dischiudersi a sussurrarmi: «Ce l'hai fatta amore», e sentirmi quella nuvola di notte e vivere l'alba come su una spiaggia.
Una spiaggia di luce bianca.

RICHIUDO GLI OCCHI
A FONDO
A FONDO
A FONDO NEI RICORDI

- CAPITOLO DUE -



Mare.
Una lunga distesa d'acqua davanti agli occhi.
Una balconata a cinquanta metri d'altezza, sul villaggio dei pescatori impegnati a riparare le reti danneggiate dalla pesca notturna.
Il silenzio del mattino interrotto dalle piccole onde infrangersi lente sul bagnasciuga.
Lo sguardo, perso nei colori, non interrompe i pensieri accavallarsi in ragionamenti sempre più complicati.
Perché?
Tanti "perché" tra le sue domande senza risposta.
«Che fai entri?», una voce di donna alle sue spalle, aldilà della porta-finestra laccata di bianco.
Paolo si girò a guardarla, mentre Simona, a piedi nudi, sciolse i neri e lunghi capelli in un gesto semplice e sensuale.
"Cosa sarebbe una donna senza sensualità?", pensava tra sé. "La brutta copia di un uomo senza l'ironia di sé stesso".
«Sì che arrivo», rispose troppo piano perché Simona potesse sentirla.
«Non hai dormito neanche stanotte. Devo iniziare a preoccuparmi?»
«Troppo tardi», rispose Paolo. «Sto già guarendo dalle mie fobie e questo mi spaventa.»
«Fammi capire Paolo, perché non ho voglia di stare dietro ai tuoi ragionamenti di primo mattino.»
«Se hai un paio d'ore, provo a spiegarti qualcosa del tutto: come l'incompatibilità di caratteri nella stessa persona, i cambiamenti d'umore apparentemente senza senso, la distorsione dei colori che non si possono vedere e tutte queste cose che tu hai già conosciuto in un'altra vita.»
«Sì, sì, certo. Ti aspetto giù per colazione.»
Sentiva l'aria sciogliersi sulla pelle più fresca, distesa sulle lenzuola ancora stropicciate dai movimenti involontari della notte.
La stanza rapiva ogni raggio di luce con una facilità sorprendente: risaltava le volte barocche e il soffitto madreperlato della Sicilia dell'Ottocento.
Gli tornarono le immagini di Simona al primo appuntamento, il sorriso con le fossette all'insù e lo sguardo malizioso di chi ama scappare per farsi raggiungere dietro il primo angolo buio.
Attrazione.
Semplice e pura attrazione che sfocia nella passione di due corpi a contatto su lenzuola di seta nera, tra un bicchiere di vino rosso e il suono delle onde morire sugli scogli, nel buio della notte, e addolcirsi sulla riva alle prime ore del mattino, alla luce di un giorno nuovo nei colori bruciati d'un colpo solo, di una fiamma troppo alta e troppo bassa per resistere al cambiare del vento, i pensieri di sé stesso che ritornano a vivere lontani da tutto e da tutti e perdersi al largo, troppo distanti per chiunque।


- CAPITOLO TRE -



Fretta.
Fretta di raggiungere la Volvo station wagon, parcheggiata nel cortile alle spalle dell'albergo.
I lacci penzoloni delle scarpe bianche da ginnastica strisciavano sul pietrisco della strada sterrata, creando pericolo di cadute improvvise.
Paolo costeggiava la sala ristorante, intravedendo dalle grandi vetrate la figura impettita e nervosa di Simona, seduta ad un tavolino all'angolo lontano, nell'attesa di consumare la loro colazione.
"Non avrebbe dovuto aspettarmi, non sarei arrivato", pensava Paolo, tutto preso dalla fuga che riguardava solo sé stesso.
Sapeva bene come sarebbe andata a finire, l'aveva sperimentato già tante di quelle volte che il copione lo conosceva a memoria; cambiavano solo i personaggi femminili, i numeri di telefono, il colore degli occhi che mutavano secondo la luce dei locali, i toni della voce a volte stridula, a volte snervante, tante volte troppo mielosa per i suoi gusti.
I sedili di pelle nera si erano surriscaldati, come di solito succedeva al primo tenue sole dell'anno, trasmettendo una sensazione di fastidio che si propagava per tutta la colonna vertebrale, fin sopra i capelli.
La chiave girava a vuoto nel chiavistello del cruscotto.
Dannazione!
Un corpo meccanico inanime, su quattro ruote motrici, che non ne voleva affatto sapere di prendere il largo da una situazione che stava diventando fin troppo angosciosa.
A nulla sembravano servire i pugni della mano sinistra arrossata sul volante incolpevole e silenzioso.
Il finestrino lato conducente si oscurò tutto d'un tratto, come un'eclissi di sole.
Ombra.
Simona era lì fuori immobile che guardava la scena con una tranquillità da film horror, quando le dita stringono la stoffa delle poltrone nel buio della proiezione.
Inutile insistere più di tanto, anzi, bisognava agire in fretta, decidersi ad affrontare la situazione così come si poteva e doveva, nel modo migliore per entrambi.
Ennesimo scatto di chiave, rapido affondare del piede destro sull'acceleratore, il motore che prende vita da un lungo coma notturno, con le luci di posizione lasciate inopportunamente accese, il pietrisco che inizia a sgombrare la strada sotto i larghi pneumatici imbiancati dalla polvere, Simona rimpicciolirsi nello specchietto retrovisore tanto quanto nella vita di Paolo.
"Che avevo fatto?" si chiese, accendendosi l'ennesima sigaretta della giornata.
Senza dubbio, non l'azione più corretta; sicuramente, quello che gli girava per la testa, consapevole dell'egoismo imperante, ma con la serenità di chi aveva agito in fin di bene, come chi paradossalmente sacrifica la vita di un cavallo zoppo, per evitare di farlo soffrire per tutta la vita।

- CAPITOLO QUATTRO -



Movimenti.
Movimenti ripetuti e traballanti degli ammortizzatori, ormai scarichi e stanchi dei lunghi viaggi senza fine e talvolta senza meta: un susseguirsi di cartelli blu, verdi, gialli scorrere al lato destro della strada; nomi di paesi, frazioni, frazioni di frazioni di paesi sconosciuti alle cartine stradali più aggiornate, linee tratteggiate riflesse sui finestrini delle auto provenire in senso opposto, ad alta velocità in confronto alla sua, come flash-back di vite incrociate negli sguardi fulminei decelerare, per attimi apparentemente tanto lunghi da scrutare e conoscere e annullare, per un po', quel senso di solitudine che ogni viaggiatore nasconde nel cruscotto senza chiave, accompagnato dalla musica fuoriuscire dalle casse laterali, gracchiare suoni svariati tra il rock delle ruote accelerate e il melodico rallentato, come i giri del motore con la marcia troppo alta a regimi troppo bassi.
La luce rossa della riserva iniziava a lampeggiare, confondendosi tra le spie incantate e sempre accese di contatti elettrici lasciati in balia della trascuratezza assoluta.
Trovare un distributore per riempire il bombolone di gas, nascosto nel portabagagli affollato di liquidi lavavetri, arbre-magique semiaperti dai gusti più disparati creare un odore dolciastro, intere confezioni di fazzolettini acquistati ai semafori tra luci rosse diventare verdi non per molto, pelli di daino e saponi liquidi per saltuari lavaggi fai-da-te, ombrelli mai usati, sciarpe e guanti e cappelli di lana dimenticati da quel lontano week-end fuori porta, sembrava un'impresa d'eroi leggendari, dove la fortuna era un elemento essenziale, aldilà della tecnica e di calcoli matematici.
La strada si faceva più stretta: i pini, da un lato e dall'altro, scorrevano in una simmetria perfetta, creando un effetto tridimensionale coinvolgente, interrotto dalle buche che costellavano l'asfalto, come crateri disseminati sulla superficie di un pianeta sconosciuto, lontano anni luce dalla civiltà.
"Trovare qualcuno prima che sia troppo tardi", pensava Paolo, preoccupato che l'indifferenza con cui aveva lasciato Simona, tra sguardi muti e colpevoli, potesse ritorcersi contro, come un segno del destino.
"Trovare qualcuno a cui chiedere informazioni", anche se ne avrebbe fatto volentieri a meno per tener fede alla sua instancabile e cocciuta determinazione a far da solo in qualsiasi situazione.
Di lì a poco, trovò quello che cercava: gonfiò il polmone del gas oltre la capacità dichiarata sulla carta di circolazione, lasciò riposare quel corpo ferroso fuori al bar apparente della stazione di servizio e c'entrò come l'ultimo dei visionari reduci da una spedizione nel deserto.
«Caffè ristretto, grazie», ordinò ad un uomo anziano, aldilà del bancone ricoperto da bustine di zucchero, disseminate tra tazzine da lavare e tovagliolini da usare.
Paolo consumò il tutto con una velocità impressionante, dimenticandosi di pagare, ma lasciando una mancia generosa a quel barman troppo sveglio da poter reclamare।

- CAPITOLO CINQUE -



Spese.
Spese di mercato, supermercato dell'antiquariato, antiquariato di storie sconosciute alla memoria fugace e avida di sensazioni sempre nuove e mai banali, interminabili fiere di paese vissute tra gli sguardi della gente divertita e sorpresa dalle luci lente e dai colori sgargianti che invitavano a comprare sentimenti semplici e puliti tra gli oggetti svariati ordinati in file orizzontali per forme, dimensioni, contenuti.
Niente di tutto questo.
Paolo sentiva il sottile bisogno, divenire esasperato, di una via di fuga da sé stesso più che dagli altri; perdersi nelle luci metropolitane, sempre accese, creare ombre notturne in cui nascondersi e sentirsi meno osservato da quegli occhi che da dentro lo scrutavano, giudicavano, sogghignando con tono austero imperativi di poco gusto.
Il motore della Volvo riempiva il silenzio delle sgombre strade, in quell'abitacolo troppo grande per una sola persona e troppo piccolo per due o più a pensare contemporaneamente dove e come mettere i bagagli che lui lasciava vuoti dietro le porte delle case, degli alberghi, delle baite su in montagna, dei portoni giù in città.
Aprire gli occhi mentre gli altri li avevano ancora chiusi, e batterli sul tempo, sempre troppo poco per uno come lui; rischiare false partenze, come un corridore dalle gambe troppo magre per arrivare fino in fondo o come un attaccante esile e scattante sul filo irritante del fuori gioco, aspettando lo sparo dello starter o il fischio dell'arbitro, convalidare o squalificare un'azione, troppo tardi per fermarsi e ricominciare: un suono insignificante, per uno come lui che voleva bucare il vento e spargerlo ai lati dei suoi pensieri per dargli quella spinta tanto forte da sorridere alla pazzia e sentirsi più vicino, più tranquillo, sempre vivo.
Sensi.
Sensi di strade che portavano ad altre strade e da loro ad altre ancora e ancora e ancora strade.
Paolo avrebbe voluto percorrerle tutte: strade a senso unico, doppio e triplo senso, sottopassaggi stretti e lunghi, sopraelevate da capogiro, salite faticose, discese mozzafiato, curve e doppie curve, dossi e cunette e ancora dossi, inversioni e conversioni che sembravano rispecchiare lo stato dell'anima inquieta sfociare in un sorriso, diventare risa fragorose e divertirsi di sé stesso e urlare controvento che la vita è una sola e sfrecciarla sull'asfalto da ritiro di patente।

- CAPITOLO SEI -



Roma.
Roma caput mundi.
Roma città aperta e ospitale: tanto grande da sentirsi un puntino all'interno di un cerchio allargarsi all'infinito, come un sasso lanciato in uno stagno formare figure concentriche e regolari; tanto antica da sentirsi cittadino della storia studiata sui banchi di scuola; tanto moderna da sembrare di viaggiare nel tempo, dal centro storico al quartiere più vicino, e sentirsi un immortale, lasciando la spada dentro al Colosseo, riprendere la macchina parcheggiata lì vicino.
Cartina alla mano, ci volevano, sì e no, ancora un paio d'ore per raggiungere il primo casello della capitale e da lì sul raccordo rischiare di girare tutt'intorno, come uno squalo riemergere affamato ad osservare, puntare, sfamare la sua voglia di mostrare i denti al mondo, richiudere la bocca e immergersi nel sonno del mare più profondo.
Linee tratteggiate a tratti interminabili, una successione di capovolgimenti di pittura bianca e viva, sull'asfalto nero e cupo, percorrere una strada infinitamente dritta per poi spegnersi in una curva lentissima ruotare sulla destra, finire in un autogrill di tutto rispetto, con tanto di tunnel sopraelevato che ne univa due in uno, da una parte all'altra delle carreggiate autostradali.
«Quanto deve stare capo?» gli disse un tipo in jeans a vita bassa, polo a strisce verdi orizzontali e un capellino da prima elementare.
«Scusa?» rispose sorpreso da quella domanda che suonava come rivolta alla persona sbagliata.
«Tempo, capo. Quanto tempo deve stare parcheggiato qua», gli richiese, molleggiando senza punto di domanda, ticchettando con l'indice lungo e tozzo sul finto vetrino plastificato del quadrante di un orologio al quarzo.
«Il tempo di prendere un caffè, poi magari vado anche in... scusi, ma perché ?» dandogli del lei per mantenere una distanza di sicurezza dalle prossime indiscrezioni.
«E questo lo dovete sapere voi, magari un caffè non vi basta per tenervi sveglio.»
«No, no, forse sono io che non mi sono spiegato. Perché volete sapere quanto tempo devo stare parcheggiato», chiese Paolo, senza punto esclamativo.
«Ehe! Quante domande dottò! Quella era per curiosità professionale, per sapere quanto tempo c'ho io per pulirvi il vetro, controllarvi le gomme... e magari bermi pure io un caffè per bontà vostra...»
«Tutto qua? Ma vieni con me che te lo offro
direttamente al bar un caffè!» invitò Paolo, sorridendo a quel tizio che aveva un "non so che" di Pacino e De Niro con l'accento napoletano.
«Grazie dottò, a buon rendere. Andiamo!»
Tra un sorso e l'altro al suo caffè lungo, chiesto ristretto, e tra un morso ad un panino con pancetta più sottaceti, dell'attore mancato, Paolo venne a sapere che costui, altro non era, che un ragazzo poco più piccolo di lui, che dimostrava d'essere più grande di lui e che si chiamava Graziano, scappato dal paese, in cerca di un'occupazione part-time come buttafuori in qualche locale notturno o d'assaggiatore di vini primitivi in qualche locale diurno.
Simpatico e spontaneo, tanto da farlo diventare passeggero gratuito in direzione stazione Termini;
comodo e stanco, tanto da rinviare l'approfondirsi della conoscenza al risveglio da quel sonno rumoroso che lo aveva inghiottito dopo la prima stazione radio trovata.

Fin qui hai potuto leggere solo i primi capitoli del romanzo.
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Marco Coppola

MARCO COPPOLA






Marco Coppola è nato a Napoli il primo settembre del 1973.
Ultimo di una famiglia allegra e numerosa, in tenera età si trasferisce dal capoluogo campano a quello pugliese, dove permane fino al raggiungimento della maggiore età.
Qui frequenta le scuole dell'obbligo e l'Istituto di Ragioneria, prima di arruolarsi nella Polizia di Stato, vivendo i posti più disparati e le situazioni più comuni, nonché insolite, dell'Italia meridionale.
I continui e ripetuti spostamenti, ne fanno un audace girovago dalla sfuggente aria romantica, sempre pronto al confronto e alle sfide della vita.
Attualmente risiede a Roma, dove accresce la sua passione per la scrittura, frequenta gli ambienti che scavano nella letteratura come sotterranei dell'esistenza umana e si distingue per le sue capacità nella descrizione delle sensazioni di quei fatti reali che svelano l'anima più intima in ognuno.

Marco Coppola nel mese di ottobre 2005 ha pubblicato con la Montedit "Ombre" - Collana I salici (narrativa) - 14x20,5 - pp. 148 - Euro 9,00 - ISBN 88-8356-980-6